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</head>
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mi segnalano questo interessante articolo<br>
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TC<br>
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<p style="margin:3px 0px 1em;text-align:justify"><font
face="Mercury SSm A, Mercury SSm B" color="#363636"><span
style="font-size:17px;line-height:25.5px">CODICI
APERTI. La Rete imprime velocità alla vita sociale
e allo sviluppo capitalistico.<b> L’attivismo è
invece lento, sempre in ritardo rispetto a
quanto accade.</b> È questo il nodo da
sciogliere. Un’intervista con il teorico olandese
Geert Lovink, a Roma per un ciclo di seminari</span></font></p>
<p style="margin:3px 0px 1em;text-align:justify"><font
face="Mercury SSm A, Mercury SSm B" color="#363636"
size="6"><span style="line-height:25.5px"><b>Sistemi
operativi della metamorfosi</b></span></font></p>
<p style="margin:3px 0px 1em;text-align:justify"><font
face="Mercury SSm A, Mercury SSm B" color="#363636"><span
style="font-size:17px;line-height:25.5px"><b>di
Teresa Numerico e Benedetto Vecchi</b></span></font></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><br>
</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">È a Roma Geert Lovink,
olandese, uno dei principali teorici dei media
contemporanei. Un’occasione per discutere sulle tante
questioni aperte della cultura delle reti e del suo
impatto su politica, economia e la società. La tesi
più scottante di Lovink è che dobbiamo dimenticare i
media quando si parla di Internet. La rete non
riguarda solo la comunicazione, ma tutta la società:
dalla salute, all’organizzazione della conoscenza,
dalla logistica alle infrastrutture, alle valutazioni
sul clima, sebbene la sua influenza resti in larga
misura invisibile.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Lovink, che nei giorni scorsi
ha tenuto due seminari alla terza università di Roma,
è sicuramente uno dei media theorist che con
continuità ha accompagnato lo sviluppo della rete e
della network culture, ha analizzato nel corso tempo
il ruolo sempre più pervasivo di Internet nella
comunicazione e nelle attività produttive,
focalizzando la sua attenzione sul fatto che il web è
stato ed è tutt’ora un laboratorio dove sono state
sperimentati modelli organizzativi del capitalismo
contemporaneo, ma anche il contesto dove l’attivismo
dei movimenti sociali ha dato forma a inediti
dispositivi di contestazione dell’informazione
mainstream e di produzione di informazione
«alternativa», mettendone comunque in evidenza limiti
e ambivalenze. Testimoni di questo lungo percorso
teorico sono i molti volumi pubblicati, molti dei
quali tradotti in Italia. Nei prossimi mesi è
annunciata l’uscita di <em>L’abisso dei social media</em>.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">Partiamo
dal conflitto tra Apple e la Fbi, dopo la richiesta
da parte di quest’ultima di un software per aggirare
i sistemi di protezione di un iPhone. Con la
determinazione di un mediattivista, Tim Cook ha
respinto sdegnato la richiesta della Fbi, in nome
del diritto inalienabile e universale alla privacy.
Con lui, quasi tutte le imprese che contano in Rete.
Che pensi del fatto che Google, Facebook, Amazon si
elevano a custodi della privacy dopo che hanno
collaborato per anni nelle tecnologie della
sorveglianze in Rete?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Dobbiamo ringraziare Julian
Assange, Anonymous, Edward Snowden e le migliaia di
attivisti dei cyberdiritti meno noti che hanno reso
visibili gli intricati rapporti tra Nsa e le stacks (i
silos di processori dei computer impilati), come Bruce
Sterling chiama le grandi aziende americane
dell’information technology e di Internet. Apple ora
si oppone anche a causa della massiccia pressione
della società negli ultimi decenni.<br>
Le persone tengono alla propria privacy e hanno rotto
il contratto sociale con la Silicon Valley che
stabiliva che gli utenti ottenessero servizi gratuiti
in cambio dei loro dati personali. Non siamo più nella
società spensierata del 2007: fin qui tutto bene.
Dobbiamo discutere sul perché la protesta si attivi
tanto lentamente. Perché è così difficile per noi
cambiare passo? Ogni cosa si velocizza tranne la
nostra resistenza.<br>
Viviamo nel regime del tempo reale. Comunichiamo
simultaneamente con chiunque da un capo all’altro
della terra, di fatto a costo zero. Un meme si
diffonde alla velocità della luce. Perché i movimenti
sociali invece ci mettono tanto? È la domanda
dell’«accelerazionismo», che resta cruciale per me.
Abbiamo bisogno di lasciar da parte condivisione e
reattività e progettare nuove forme di organizzazione
che non siano solo decentrate, inclusive e
democratiche, ma che siano capaci di tenere il passo
della velocità: da una rete discorsiva a una di
coordinamento. Questa è la dimensione politica della
svolta logistica negli studi umanistici (da Keller
Easterling, a Alan Liu, a John Durham Peters a molti
altri). Lo spostamento va oltre la classica domanda
«cosa si deve fare». Per esempio, siamo a tre anni dal
caso Snowden e solo 1% dei suoi documenti è diventato
disponibile e di dominio pubblico. Il problema è che
l’orologio interno al nostro corpo non si è ancora
assestato sul potenziale del tempo reale delle reti di
computer.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">A
partire dall’agosto 2012 Assange è costretto a
nascondersi tra le mura dell’ambasciata dell’Ecuador
a Londra. È un personaggio controverso, ma il
fondatore di Wikileaks è anche una personalità che
ha reso affascinante l’attitudine hacker che vuole
l’informazione libera. Puoi spiegare, però, la
dialettica tra l’eco globale di Wikileaks e la
tendenza a controllare tutte le attività di
comunicazione messa in campo da governi e imprese?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Sono uno dei pochi critici di
Assange che arriva proprio dalla sua stessa cerchia. È
importante sostenere la sua causa e partecipare al
lavoro investigativo sulle migliaia, se non milioni di
documenti che Wikileaks e altri come Cryptome hanno
reso pubblici finora. Tuttavia non condivido il suo
approccio alla celebrità e la visione cospirativa del
mondo. A paragone delle Ong e dei movimenti sociali in
giro per il mondo, l’etica del lavoro di Assange è
stata disastrosa. Ci sono molti elementi della cultura
hacker che dobbiamo criticare e respingere
apertamente. Dovremmo, ad esempio, chiedere a Assange
di smettere di autoproclamarsi «direttore» (come se
stesse gestendo un’azienda di comunicazione) e
accettare che i suoi sostenitori lavorino in strutture
collettive.<br>
Per tornare alla domanda, quando si discute di
trasparenza radicale, sostengo completamente Assange.
Teorici conservatori in Germania (Byung-Chul Han) e in
Olanda (Paul Frissen) considerano equivalenti la
trasparenza della Nsa e quella di Wikileaks. Non sono
d’accordo con loro. Molti hacker sono attenti e
precisi su quello che rendono pubblico. Oppure
pensiamo al Democracy in Europe Mouvement, il cui
leader Yannis Varoufakis ha cominciato con la
richiesta di aprire gli incontri dell’Eurogruppo. Si
tratta di domande specifiche che non sono riducibili
al tipo di richiesta cinica che «ogni cosa deve essere
trasparente».</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">Nella
«network culture» era scontato che la rete non
ammettesse confini. Ora assistiamo a una sua
«balcanizzazione». I confini vengono ristabiliti.
Siamo forse di fronte al tramonto dell’idea che la
rete sia un medium globale? Oppure stiamo assistendo
a una riorganizzazione delle gerarchie economiche,
politiche e sociali?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Le reti non sono solo
infrastrutture o protocolli, sono forme organizzative
e danno forma alla struttura sociale. Almeno, fino a
poco tempo fa. Nel mio ultimo libro — che uscirà in
Italia a maggio per Egea, L’abisso dei social media –
affermo, con molti altri, che la forma dominante
attualmente non è la società delle reti di Castells,
ma il capitalismo delle piattaforme. Le reti esistono,
ma sono sotto-strutture che funzionano dentro il
capitalismo delle piattaforme e non hanno autonomia.
Ci sono anche le protezioni geopolitiche, i walled
garden di Facebook e del firewall cinese. Ma sono
convinto che il dominio sulle nostre reti non dipenda
da una loro frammentazione, ma da un incredibile
processo di centralizzazione del software e delle
infrastrutture.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">In
anni recenti, per molti attivisti e teorici
«condivisione» era la parola magica da usare per
definire una possibile alternativa al capitalismo.
Una sorta di fuoriuscita dall’economia di mercato
attraverso lo sviluppo d’imprese, cooperative, reti
di imprese basate sulla partecipazione e su una
logica non capitalista. Adesso invece la sharing
economy è indicata come la salvezza del capitalismo.
Cosa ne pensi?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">In prima battuta direi che si
tratta di un classico caso di appropriazione
capitalistica. Per me condividere è qualcosa di
speciale, è un regalo, collegato a un rito.
Condividere non è qualcosa di automatico e freddo. È
precisamente l’opposto delle transazioni del business.
Non ho mai capito cosa stessero condividendo Uber o
Airbnb (certamente non ricavi e perdite). Il problema
c’è stato perché abbiamo sottovalutato il ruolo dei
nuovi intermediari: l’ideologia di Internet
enfatizzava la distruzione dei vecchi, ma non ha
discusso dei nuovi. Evgeny Morozov e altri
recentemente hanno enfatizzato a questo proposito il
concetto di «estrazione di una rendita» (il Guardian,
31 /1/2016).</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">La
«sharing economy» eleva a norma il legame tra
innovazione e precarietà nel rapporto di lavoro.
L’innovazione deve trovare canali di finanziamento
sia dentro lo stato, sia al di fuori (venture
capital, crowdfunding e crowdsourcing). La
precarietà è, però, la regola. Come rompere questo
legame che toglie valore al lavoro – cognitivo o
manuale – e funzionalizza la ricerca solo al
profitto in una stretta logica economica di successo
a breve termine?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Costruendo beni comuni.
Dobbiamo elaborare iniziative collettive nelle quali
riaffermare il carattere pubblico di alcuni elementi
cruciali della cittadinanza: salute pubblica,
biblioteche pubbliche, parchi e spiagge pubbliche,
scuole e università pubbliche. Nello stesso tempo
andare all’offensiva come quando protestiamo contro la
privatizzazione delle infrastrutture pubbliche.
Chiedere una moratoria della vendita delle case
popolari pubbliche, aprire un dibattito con Airbnb
nella propria zona, condividere nuove forme di impegno
civile (ibrido) a livello locale. Questo include anche
riprendersi Internet come bene pubblico.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">La
tua riflessione ha evidenziato una saldatura tra
network culture e uso politico della Rete. L’uso
politico della rete sia ormai un fatto acquisito.
Eppure il magmatico accumulo di esperienze di
movimento non produce un accumulo di potere. Come
leggi questa diffusione virale di mediattivismo,
spesso caratterizzato da un ciclo di vita breve
senza cioè continuità politica?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Le reti tendono a decostruire
il potere e, lentamente ma stabilmente, attivano
tendenze di centralizzazione. Questo è il loro reale
anarchismo che nessuno nota. David Graeber lo
abbraccia, mentre un leninista come Slavoj Žižek lo
mette in discussione. Nel mio lavoro ho cercato di
dare a questo dibattito secolare una fondazione
tecnologica. Dobbiamo comprendere che i computer sono
macchine. Non c’è modo di delegare loro il lavoro duro
dell’organizzazione degli esseri umani. Ci salva solo
l’«Evento». Con la maiuscola. L’evento crea legami
forti. Fa’ cose. Mette insieme e ci impegna all’atto
di bellezza.</p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify"><span style="font-weight:700">Com’è
possibile combattere il risentimento nei social
network, mantenendo intatto lo spirito critico
necessario a spiegare le conseguenze politiche del
capitalismo delle piattaforme?</span></p>
<p style="color:rgb(54,54,54);font-family:'Mercury SSm
A','Mercury SSm
B';font-size:17px;line-height:1.5;margin:3px 0px
1em;text-align:justify">Praticando l’arte della
metamorfosi. Dobbiamo reinventare noi stessi ogni
tanto e non restare ancorati alle posizioni consuete.
Come possiamo smantellare il risentimento? Questa è la
grande sfida dei nostri tempi per l’Europa e
l’Occidente. Non basta insistere sul politically
correct. Abbiamo bisogno di creare nuovi incontri.
Sono consapevole che si tratta di una mossa cristiana.
Forse i computer sono macchine cristiane. Umberto Eco
aveva ragione a proporre la distinzione tra Mac come
computer cattolico e Microsoft come interfaccia
protestante. Ma tutt’e due sono sistemi operativi
cristiani. Le reti collegano, creano una comunità.
Enfatizziamolo in questi tempi disperatamente
nichilisti.</p>
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