[ninux-Firenze] Sistemi operativi della metamorfosi
tiziano cardosi
tiziano.cardosi at gmail.com
Fri Mar 4 15:20:07 CET 2016
mi segnalano questo interessante articolo
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TC
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CODICI APERTI. La Rete imprime velocità alla vita sociale e allo
sviluppo capitalistico.*L’attivismo è invece lento, sempre in ritardo
rispetto a quanto accade.* È questo il nodo da sciogliere. Un’intervista
con il teorico olandese Geert Lovink, a Roma per un ciclo di seminari
*Sistemi operativi della metamorfosi*
*di Teresa Numerico e Benedetto Vecchi*
È a Roma Geert Lovink, olandese, uno dei principali teorici dei media
contemporanei. Un’occasione per discutere sulle tante questioni aperte
della cultura delle reti e del suo impatto su politica, economia e la
società. La tesi più scottante di Lovink è che dobbiamo dimenticare i
media quando si parla di Internet. La rete non riguarda solo la
comunicazione, ma tutta la società: dalla salute, all’organizzazione
della conoscenza, dalla logistica alle infrastrutture, alle valutazioni
sul clima, sebbene la sua influenza resti in larga misura invisibile.
Lovink, che nei giorni scorsi ha tenuto due seminari alla terza
università di Roma, è sicuramente uno dei media theorist che con
continuità ha accompagnato lo sviluppo della rete e della network
culture, ha analizzato nel corso tempo il ruolo sempre più pervasivo di
Internet nella comunicazione e nelle attività produttive, focalizzando
la sua attenzione sul fatto che il web è stato ed è tutt’ora un
laboratorio dove sono state sperimentati modelli organizzativi del
capitalismo contemporaneo, ma anche il contesto dove l’attivismo dei
movimenti sociali ha dato forma a inediti dispositivi di contestazione
dell’informazione mainstream e di produzione di informazione
«alternativa», mettendone comunque in evidenza limiti e ambivalenze.
Testimoni di questo lungo percorso teorico sono i molti volumi
pubblicati, molti dei quali tradotti in Italia. Nei prossimi mesi è
annunciata l’uscita di /L’abisso dei social media/.
Partiamo dal conflitto tra Apple e la Fbi, dopo la richiesta da parte di
quest’ultima di un software per aggirare i sistemi di protezione di un
iPhone. Con la determinazione di un mediattivista, Tim Cook ha respinto
sdegnato la richiesta della Fbi, in nome del diritto inalienabile e
universale alla privacy. Con lui, quasi tutte le imprese che contano in
Rete. Che pensi del fatto che Google, Facebook, Amazon si elevano a
custodi della privacy dopo che hanno collaborato per anni nelle
tecnologie della sorveglianze in Rete?
Dobbiamo ringraziare Julian Assange, Anonymous, Edward Snowden e le
migliaia di attivisti dei cyberdiritti meno noti che hanno reso visibili
gli intricati rapporti tra Nsa e le stacks (i silos di processori dei
computer impilati), come Bruce Sterling chiama le grandi aziende
americane dell’information technology e di Internet. Apple ora si oppone
anche a causa della massiccia pressione della società negli ultimi decenni.
Le persone tengono alla propria privacy e hanno rotto il contratto
sociale con la Silicon Valley che stabiliva che gli utenti ottenessero
servizi gratuiti in cambio dei loro dati personali. Non siamo più nella
società spensierata del 2007: fin qui tutto bene. Dobbiamo discutere sul
perché la protesta si attivi tanto lentamente. Perché è così difficile
per noi cambiare passo? Ogni cosa si velocizza tranne la nostra resistenza.
Viviamo nel regime del tempo reale. Comunichiamo simultaneamente con
chiunque da un capo all’altro della terra, di fatto a costo zero. Un
meme si diffonde alla velocità della luce. Perché i movimenti sociali
invece ci mettono tanto? È la domanda dell’«accelerazionismo», che resta
cruciale per me. Abbiamo bisogno di lasciar da parte condivisione e
reattività e progettare nuove forme di organizzazione che non siano solo
decentrate, inclusive e democratiche, ma che siano capaci di tenere il
passo della velocità: da una rete discorsiva a una di coordinamento.
Questa è la dimensione politica della svolta logistica negli studi
umanistici (da Keller Easterling, a Alan Liu, a John Durham Peters a
molti altri). Lo spostamento va oltre la classica domanda «cosa si deve
fare». Per esempio, siamo a tre anni dal caso Snowden e solo 1% dei suoi
documenti è diventato disponibile e di dominio pubblico. Il problema è
che l’orologio interno al nostro corpo non si è ancora assestato sul
potenziale del tempo reale delle reti di computer.
A partire dall’agosto 2012 Assange è costretto a nascondersi tra le mura
dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. È un personaggio controverso, ma
il fondatore di Wikileaks è anche una personalità che ha reso
affascinante l’attitudine hacker che vuole l’informazione libera. Puoi
spiegare, però, la dialettica tra l’eco globale di Wikileaks e la
tendenza a controllare tutte le attività di comunicazione messa in campo
da governi e imprese?
Sono uno dei pochi critici di Assange che arriva proprio dalla sua
stessa cerchia. È importante sostenere la sua causa e partecipare al
lavoro investigativo sulle migliaia, se non milioni di documenti che
Wikileaks e altri come Cryptome hanno reso pubblici finora. Tuttavia non
condivido il suo approccio alla celebrità e la visione cospirativa del
mondo. A paragone delle Ong e dei movimenti sociali in giro per il
mondo, l’etica del lavoro di Assange è stata disastrosa. Ci sono molti
elementi della cultura hacker che dobbiamo criticare e respingere
apertamente. Dovremmo, ad esempio, chiedere a Assange di smettere di
autoproclamarsi «direttore» (come se stesse gestendo un’azienda di
comunicazione) e accettare che i suoi sostenitori lavorino in strutture
collettive.
Per tornare alla domanda, quando si discute di trasparenza radicale,
sostengo completamente Assange. Teorici conservatori in Germania
(Byung-Chul Han) e in Olanda (Paul Frissen) considerano equivalenti la
trasparenza della Nsa e quella di Wikileaks. Non sono d’accordo con
loro. Molti hacker sono attenti e precisi su quello che rendono
pubblico. Oppure pensiamo al Democracy in Europe Mouvement, il cui
leader Yannis Varoufakis ha cominciato con la richiesta di aprire gli
incontri dell’Eurogruppo. Si tratta di domande specifiche che non sono
riducibili al tipo di richiesta cinica che «ogni cosa deve essere
trasparente».
Nella «network culture» era scontato che la rete non ammettesse confini.
Ora assistiamo a una sua «balcanizzazione». I confini vengono
ristabiliti. Siamo forse di fronte al tramonto dell’idea che la rete sia
un medium globale? Oppure stiamo assistendo a una riorganizzazione delle
gerarchie economiche, politiche e sociali?
Le reti non sono solo infrastrutture o protocolli, sono forme
organizzative e danno forma alla struttura sociale. Almeno, fino a poco
tempo fa. Nel mio ultimo libro — che uscirà in Italia a maggio per Egea,
L’abisso dei social media – affermo, con molti altri, che la forma
dominante attualmente non è la società delle reti di Castells, ma il
capitalismo delle piattaforme. Le reti esistono, ma sono sotto-strutture
che funzionano dentro il capitalismo delle piattaforme e non hanno
autonomia. Ci sono anche le protezioni geopolitiche, i walled garden di
Facebook e del firewall cinese. Ma sono convinto che il dominio sulle
nostre reti non dipenda da una loro frammentazione, ma da un incredibile
processo di centralizzazione del software e delle infrastrutture.
In anni recenti, per molti attivisti e teorici «condivisione» era la
parola magica da usare per definire una possibile alternativa al
capitalismo. Una sorta di fuoriuscita dall’economia di mercato
attraverso lo sviluppo d’imprese, cooperative, reti di imprese basate
sulla partecipazione e su una logica non capitalista. Adesso invece la
sharing economy è indicata come la salvezza del capitalismo. Cosa ne pensi?
In prima battuta direi che si tratta di un classico caso di
appropriazione capitalistica. Per me condividere è qualcosa di speciale,
è un regalo, collegato a un rito. Condividere non è qualcosa di
automatico e freddo. È precisamente l’opposto delle transazioni del
business. Non ho mai capito cosa stessero condividendo Uber o Airbnb
(certamente non ricavi e perdite). Il problema c’è stato perché abbiamo
sottovalutato il ruolo dei nuovi intermediari: l’ideologia di Internet
enfatizzava la distruzione dei vecchi, ma non ha discusso dei nuovi.
Evgeny Morozov e altri recentemente hanno enfatizzato a questo proposito
il concetto di «estrazione di una rendita» (il Guardian, 31 /1/2016).
La «sharing economy» eleva a norma il legame tra innovazione e
precarietà nel rapporto di lavoro. L’innovazione deve trovare canali di
finanziamento sia dentro lo stato, sia al di fuori (venture capital,
crowdfunding e crowdsourcing). La precarietà è, però, la regola. Come
rompere questo legame che toglie valore al lavoro – cognitivo o manuale
– e funzionalizza la ricerca solo al profitto in una stretta logica
economica di successo a breve termine?
Costruendo beni comuni. Dobbiamo elaborare iniziative collettive nelle
quali riaffermare il carattere pubblico di alcuni elementi cruciali
della cittadinanza: salute pubblica, biblioteche pubbliche, parchi e
spiagge pubbliche, scuole e università pubbliche. Nello stesso tempo
andare all’offensiva come quando protestiamo contro la privatizzazione
delle infrastrutture pubbliche. Chiedere una moratoria della vendita
delle case popolari pubbliche, aprire un dibattito con Airbnb nella
propria zona, condividere nuove forme di impegno civile (ibrido) a
livello locale. Questo include anche riprendersi Internet come bene
pubblico.
La tua riflessione ha evidenziato una saldatura tra network culture e
uso politico della Rete. L’uso politico della rete sia ormai un fatto
acquisito. Eppure il magmatico accumulo di esperienze di movimento non
produce un accumulo di potere. Come leggi questa diffusione virale di
mediattivismo, spesso caratterizzato da un ciclo di vita breve senza
cioè continuità politica?
Le reti tendono a decostruire il potere e, lentamente ma stabilmente,
attivano tendenze di centralizzazione. Questo è il loro reale anarchismo
che nessuno nota. David Graeber lo abbraccia, mentre un leninista come
Slavoj Žižek lo mette in discussione. Nel mio lavoro ho cercato di dare
a questo dibattito secolare una fondazione tecnologica. Dobbiamo
comprendere che i computer sono macchine. Non c’è modo di delegare loro
il lavoro duro dell’organizzazione degli esseri umani. Ci salva solo
l’«Evento». Con la maiuscola. L’evento crea legami forti. Fa’ cose.
Mette insieme e ci impegna all’atto di bellezza.
Com’è possibile combattere il risentimento nei social network,
mantenendo intatto lo spirito critico necessario a spiegare le
conseguenze politiche del capitalismo delle piattaforme?
Praticando l’arte della metamorfosi. Dobbiamo reinventare noi stessi
ogni tanto e non restare ancorati alle posizioni consuete. Come possiamo
smantellare il risentimento? Questa è la grande sfida dei nostri tempi
per l’Europa e l’Occidente. Non basta insistere sul politically correct.
Abbiamo bisogno di creare nuovi incontri. Sono consapevole che si tratta
di una mossa cristiana. Forse i computer sono macchine cristiane.
Umberto Eco aveva ragione a proporre la distinzione tra Mac come
computer cattolico e Microsoft come interfaccia protestante. Ma tutt’e
due sono sistemi operativi cristiani. Le reti collegano, creano una
comunità. Enfatizziamolo in questi tempi disperatamente nichilisti.
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